Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

domenica 30 settembre 2012

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L’euro non è la soluzione per i problemi con la bilancia dei pagamenti




Anthony P. Thirlwall

Emu is no cure for problems with the balance of payments

Financial Times, 9 ottobre 1991.


L’euro non è la soluzione per i problemi con la bilancia dei pagamenti

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]


In un mondo con molte valute, il problema di una nazione con la bilancia dei pagamenti è essenzialmente un problema di valuta estera.
Dati il tasso di crescita del suo prodotto e il suo livello della disoccupazione, la nazione non è in grado di ricavare dalle esportazioni abbastanza valuta estera per pagare le sue importazioni al tasso di cambio dato.
O la nazione deve continuamente indebitarsi con l’estero, o deve cedere qualcosa: il tasso di crescita, il livello dell’occupazione o il tasso di cambio.
In questo senso, il Regno Unito è stato afflitto da problemi con la bilancia dei pagamenti per anni.

Questo significa che se il Regno Unito aderisse all’Unione Monetaria Europea che prevede una moneta unica le sue difficoltà con la bilancia dei pagamenti svanirebbero dalla sera alla mattina?
E’ vero che non ci sarebbe più un tasso di cambio da difendere ma ci sarebbero ancora squilibri tra le esportazioni e le importazioni che non potrebbero essere corretti, né naturalmente né facilmente, né da prestiti o investimenti privati né da trasferimenti fiscali interregionali in una unione federale.

Coloro che affermano che i problemi con la bilancia dei pagamenti scomparirebbero propongono l’analogia con le regioni di una nazione che impiegano tutte la stessa moneta.
Noi non parliamo delle difficoltà con la bilancia dei pagamenti della Scozia, del Galles e del nord dell’Inghilterra, o della Sicilia e della Puglia.
Ma questo non significa che queste difficoltà non esistano.
Ogni livello delle esportazioni di una regione inferiore al livello delle importazioni che domanda si manifesta in una crescita lenta, in un tasso di disoccupazione elevato e in condizioni economiche in generale depresse, a meno che i prodotti e i servizi di questa regione non possano essere resi più competitivi grazie a sussidi, o a meno che la regione non riceva flussi di capitali sotto forma di prestiti del settore privato o di trasferimenti fiscali da parte del governo.
Mentre è vero, quindi, che l’adozione di una moneta unica al posto di un sistema di molte valute comporta la scomparsa della manifestazione esteriore delle difficoltà con la bilancia dei pagamenti, perché non c’è più un tasso di cambio da difendere, e le riserve di valute estere divengono irrilevanti, la manifestazione interiore dei deficit della bilancia dei pagamenti rimane.
Samuel Brittan ha recentemente sostenuto che “la possibilità di liberarsi una volta per tutte del problema della bilancia dei pagamenti è uno dei vantaggi maggiori ma meno riconosciuti dell’euro”.
Nello sminuire l’importanza della bilancia dei pagamenti per il funzionamento regolare dell’economia reale, Brittan allude all’assurdità di trattare il commercio tra il Sussex [Regno Unito] e la Normandia [Francia] in modo completamente diverso rispetto al commercio tra lo stesso Sussex e lo Yorkshire [Regno Unito] quando tutte e tre le regioni si suppone che siano nello stesso mercato unico.
Brittan riconosce che alcuni problemi con la bilancia dei pagamenti riappariranno in una forma regionale all’interno di un’unione monetaria.
Queste questioni sono al centro del dibattito sulla sovranità che oggi generano così tanta eccitazione nella Comunità Europea.
Eppure ci sono buone ragioni per trattare il commercio tra il Sussex e la Normandia in modo diverso dal commercio tra il Sussex e lo Yorkshire.
In primo luogo, il Regno Unito come stato nazionale può sentire una responsabilità per i cittadini residenti nel Sussex che non prova per gli abitanti della Normandia.
In secondo luogo, il Regno Unito può ritenersi in grado di affrontare le disparità tra il Sussex e lo Yorkshire per mezzo del suo sistema fiscale nazionale in un modo che non potrebbe essere garantito se le capacità di sopravvivenza del Sussex fossero minacciate da una superiore competitività della Normandia all’interno di una unione monetaria.
In alcune circostanze il tasso di cambio potrebbe essere un’arma utile per proteggere gli abitanti del Sussex.

Il problema della bilancia dei pagamenti è comunque molto più grave della sola questione del tasso di cambio.
Il ruolo della bilancia dei pagamenti nella spiegazione delle differenze tra i tassi di crescita delle diverse regioni di una nazione è stato ignorato per troppo tempo dalla teoria economica ortodossa che, prima di Keynes, sostenne che la bilancia dei pagamenti, come ogni altra cosa nel sistema economico, si sarebbe regolata da se attraverso il sistema dei prezzi, e che poi, negli anni Cinquanta, analizzò i risultati in termini di crescita economica dal lato dell’offerta senza alcun riferimento alla domanda.
La rivoluzione keynesiana non fu di aiuto perché il modello di Keynes era statico e si confrontava in massima parte con una economia chiusa.
L’enfasi sugli squilibri tra il risparmio e gli investimenti spostò l’attenzione dal maggiore squilibrio potenziale tra le esportazioni e le importazioni che nel mondo reale può essere molto più difficile da correggere.
Un livello delle esportazioni elevato in rapporto alle importazioni domandate è vitale per rafforzare la domanda aggregata nel sistema economico considerato nel suo complesso, con o senza una moneta unica.
Un certo grado di sovranità economica sarebbe perso nel movimento verso una moneta unica, ma molto di più si perse quando il Regno Unito aderì alla Comunità Europea nel 1971.
La capacità di proteggere e incoraggiare i settori strategici dell’economia venne meno; la possibilità di programmare dei sistemi di commercio amministrato per pareggiare i deficit della bilancia dei pagamenti è stata persa; la capacità di proteggersi da nazioni con avanzi persistenti è stata tolta; le imposte differenziali che discriminano le imprese a favore dei settori che producono beni esportabili sono entrate in collisione con il Trattato di Roma.
La bilancia dei pagamenti del Regno Unito è cronicamente debole.
Elevati tassi di interesse sono necessari per finanziare i deficit che il paese incontra quanto tenta di crescere sia pure a un tasso non superiore all’1 o al 2 per cento l’anno, e a loro volta danneggiano l’economia reale.
Tre secoli fa i mercantilisti riconobbero questo dilemma con grande chiarezza, e così fece Keynes nella sua difesa del mercantilismo contro i classici, sostenitori del libero scambio, che trattarono i mercantilisti come “imbecilli” (nelle parole di Keynes).
Come Keynes riconobbe giustamente, il tasso di interesse necessario per l’equilibrio esterno può non essere in linea con quello necessario per l’equilibrio interno.
Anche questo problema non scompare in una zona con una moneta unica nella quale regioni (o nazioni) depresse competono per attrarre investimenti.

Il Regno Unito ha bisogno di tutti gli strumenti monetari e fiscali di cui può disporre per interrompere 40 anni di bilancia dei pagamenti debole, crescita economica lenta, domanda depressa e deindustrializzazione che conducono a una bilancia dei pagamenti ancora più debole.

Credere che un basso livello delle esportazioni, la penetrazione delle importazioni, il deteriorarsi della base industriale che conduce a una crescita più lenta e a una disoccupazione crescente scomparirebbero con una moneta unica significa trasformare l’economia in una branca della teologia.


[FINE]

domenica 16 settembre 2012

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La vera emergenza non è il “populismo” ma una normalizzazione di tipo moderato




Federico Caffè

Che spregiudicato quell’economista,                                                ha scoperto la legge della giungla

“Il Manifesto”, 7 dicembre 1978.
Federico Caffè, La solitudine del riformista. A cura di Nicola Acocella e Maurizio Franzini.
Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 129-131.




La vera emergenza non è il “populismo”                                         ma una normalizzazione di tipo moderato




Vedere nel sindacato la forza dirompente sia degli equilibri del mercato che delle potenzialità della programmazione è l’approdo più recente, e fuorviante, della saggezza convenzionale.
La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato conturbanti consensi perfino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne il sovrano, al suo assoggettamento alle forze che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali,  ma non paganti, della collettività.
I propositi di programmazione, d’altro canto, non si discostano ancora oggi dall’antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di piano, sfumandolo in quello più blando di schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto “tutti fanno piani”.

Questo arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza.
Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all’antico: il ricupero di idee del passato che siano state a torto trascurate o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido.
Ma allorché Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che “la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile”, si è di fronte non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma all’ennesima attestazione dell’atteggiamento del ritorno retrivo di chi non ha saputo niente apprendere e niente dimenticare.

L’informazione maggiormente in grado di influenzare l’opinione pubblica, i messaggi delle persone in posizione di potere e di responsabilità non differiscono da questa, in fondo patetica, incapacità di studiosi indubbiamente eminenti, come Hayek, di riconsiderare in modo nuovo antichi convincimenti.
Con la differenza che, in personaggi di minor calibro intellettuale, non si è in presenza di un malinconico attaccamento al mondo di ieri, ma di una cinica e spregiudicata resistenza all’avanzamento sociale, qualificato con monotona insistenza come espressione della ondata delle aspettative crescenti.
Frasi del genere, al pari delle rampogne per il permissivismo scolastico (e occorrerebbe spesso chiedersi da quali pulpiti venga la predica) o al pari dell’ipocrita lacerarsi le vesti nei confronti dell’assenteismo operaio e della microconflittualità aziendale, finiscono per essere vincenti nella pubblica opinione: e vi contribuisce, a mio avviso, la reazione inadeguata e inefficace delle forze sindacali.
Anche per esse vale l’alto monito a non aver timore: il che, tra gli altri significati, ha anche quello di non dissociare l’autocritica che si consideri necessaria da una precisa, energica, documentata opera di controinformazione.

La vera emergenza non è nell’economia, il cui quadro è molto meno allarmante di quanto lo si prospetti con orchestrata ma deformante abilità; bensì nel tentativo di bloccare ancora una volta l’ascesa, necessariamente convulsa, dei ceti popolari, mediante una normalizzazione di tipo moderato.
Non per nulla, l’istruzione impartita “nelle zone esclusive della città” viene considerata a priori come valida; mentre la fatica quotidiana intesa a rompere il monopolio delle conoscenze viene ritenuta, per definizione, squalificata e squalificante.
Ma che il fastidio del tutto esplicito per le soluzioni non elitarie e l’artificiosa attribuzione della qualifica di “populismo” a ogni aspirazione di avanzamento sociale avvengano con la tacita acquiescenza delle forze politicamente progressiste è ciò che rende particolarmente amaro il periodo che viviamo.

Se realmente si è ancora disposti a seguire “programmaticamente” il ricatto dell’appello allo straniero; se realmente ci si propongono come modelli di efficienza paesi che scaricano le difficoltà cicliche sui lavoratori stranieri, o associano le virtù tecnocratiche alla più elevata maldistribuzione del reddito; allora non resta che una soluzione alla Guicciardini.
Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell’interesse individuale; bensì “come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e impegno civile”.


[FINE]


N.B. Il grassetto è mio.


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Lode dell'imparare




Bertolt Brecht

Lob des Lernens


Lerne das Einfachste! Für die
Deren Zeit gekommen ist
Ist es nie zu spät!
Lerne das Abc, es genügt nicht, aber
Lerne es! Laß es dich nicht verdrießen!
Fang an! Du mußt alles wissen!
Du mußt die Führung übernehmen.

Lerne, Mann im Asyl!
Lerne, Mann im Gefängnis!
Lerne, Frau in der Küche!
Lerne, Sechzigjährige!
Du mußt die Führung übernehmen.
Suche die Schule auf, Obdachloser!
Verschaffe dir Wissen, Frierender!
Hungriger, greif nach dem Buch: es ist eine Waffe.
Du mußt die Führung übernehmen.

Scheue dich nicht zu fragen, Genosse!
Laß dir nichts einreden
Sieh selber nach!
Was du nicht selber weißt
Weißt du nicht.
Prüfe die Rechnung
Du mußt sie bezahlen.
Lege den Finger auf jeden Posten
Frage: Wie kommt er hierher?
Du mußt die Führung übernehmen



Lode dell’imparare

Bertolt Brecht, Poesie e Canzoni. A cura di Ruth Leiser e Franco Fortini. 
Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p.60.

Impara quel che è più semplice! Per quelli
il cui tempo è venuto
non è mai troppo tardi!
Impara l’a b c;  non basta, ma
imparalo! E non ti venga a noia!
Comincia! Devi saper tutto, tu!
Tu devi prendere il potere.

Impara, uomo all’ospizio!
Impara, uomo in prigione!
Impara, donna in cucina!
Impara, sessantenne!
Tu devi prendere il potere.

Frequenta la scuola, senzatetto!
Acquista il sapere, tu che hai freddo!
Affamato, afferra il libro: è un arma.
Tu devi prendere il potere.

Non aver paura di chiedere, compagno!
Non lasciarti influenzare,
verifica tu stesso!
Quel che non sai tu stesso,
non lo saprai.

Controlla il conto,
sei tu che lo devi pagare.
Punta il dito su ogni voce,
chiedi: e questo, perché?
Tu devi prendere il potere.

(1933)

domenica 9 settembre 2012

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Aspetti politici del pieno impiego




Michał Kalecki

Political Aspects of Full Employment

Political Quartely, 14, pp. 322-331.
Pubblicazione disponibile qui.


Aspetti politici del pieno impiego

[ Traduzione di Giorgio Di Maio * ]



I
[La dottrina economica del pieno impiego]
I.1
Una solida maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono essere importate dall’estero.
Se il Governo garantisce investimenti pubblici (ad esempio costruisce scuole, ospedali e autostrade) o sostiene con sussidi il consumo di massa (con gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o con sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità) e se, in più, queste spese sono finanziate con un maggiore indebitamento e non con la tassazione (che potrebbe avere un effetto negativo sugli investimenti e sui consumi privati) allora la domanda effettiva per beni e servizi può essere incrementata fino al punto che corrisponde al raggiungimento del pieno impiego.

Si noti che questa spesa del Governo incrementa l’occupazione non solo direttamente ma anche indirettamente, dal momento che i redditi più elevati che essa genera provocano a loro volta incrementi secondari della domanda di beni di consumo e di investimento.

I.2
Ci si potrebbe chiedere dove il pubblico prenderà il denaro da prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi.
Per comprendere questo processo la cosa migliore, penso, è immaginare per un momento che il Governo paghi i suoi fornitori con titoli di Stato.
I fornitori, in generale, non tratterranno questi titoli ma li metteranno in circolazione acquistando altri beni o servizi, e la circolazione dei titoli di Stato continuerà finché alla fine essi giungeranno a persone che li tratterranno in quanto attività che generano un reddito sotto forma di interesse.
In ogni periodo l’incremento totale dei titoli di Stato posseduti (temporaneamente o stabilmente) dalle persone e dalle imprese sarà pari ai beni e ai servizi venduti al Governo.
Così quello che l’economia presta al Governo sono i beni e i servizi la cui produzione è “finanziata” dai titoli di Stato.
Nella realtà il Governo non paga i suoi acquisti con titoli di Stato ma con denaro, ma nello stesso tempo emette titoli e così raccoglie denaro; e questo è equivalente al processo immaginario descritto prima.

Che cosa succede, tuttavia, se il pubblico non vuole assorbire tutto l’incremento dei titoli di Stato? Il pubblico alla fine offrirà i titoli di Stato alle banche per avere in cambio del denaro (in contanti o sotto forma di depositi). Se le banche accetteranno queste offerte, il tasso di interesse non varierà, altrimenti il prezzo dei titoli di Stato diminuirà, il che significa che ci sarà un incremento del tasso di interesse, e questo incoraggerà il pubblico a detenere più titoli di Stato in rapporto ai depositi.
Ne segue che il tasso di interesse dipende dalla politica delle banche, e in particolare dalla politica della Banca Centrale.
Se questa politica mira a mantenere il tasso di interesse a un certo livello questo obiettivo può facilmente essere raggiunto, qualunque sia l’ampiezza del nuovo indebitamento del Governo.
Questa era ed è la situazione nell’attuale guerra. Nonostante l’astronomico deficit di bilancio, il tasso di interesse non ha mostrato alcun aumento sin dall’inizio del 1940.

I.3
Si può obiettare che la spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento causerà inflazione. A questo si può replicare che la domanda effettiva creata dal Governo agisce come ogni altro incremento della domanda. Se la forza lavoro, gli impianti e le materie prime di provenienza estera sono disponibili in eccesso, l’incremento della domanda è soddisfatto da un incremento della produzione.
Ma se il punto di pieno impiego delle risorse è raggiunto e la domanda effettiva continua a crescere, allora i prezzi si alzeranno per equilibrare la domanda e l’offerta di beni e servizi.
(In una condizione di sovraimpiego delle risorse come quella della quale siamo testimoni nell’attuale economia di guerra, un rialzo dei prezzi che generi inflazione è stato evitato solo fin tanto che il razionamento e la imposizione fiscale diretta sono riusciti a far diminuire la domanda effettiva per i beni di consumo).
Ne segue che se l’intervento del Governo mira a raggiungere il pieno impiego ma si ferma prima che la domanda effettiva aumenti oltre il segno corrispondente al pieno impiego, allora non c’è alcuna necessità di preoccuparsi dell’inflazione 1.


II
[Problemi politici del pieno impiego]
II.1
Quello che ho scritto sopra è un riassunto molto rozzo e incompleto della dottrina economica del pieno impiego. Ma, penso, è sufficiente per dare al lettore un’idea dell’essenza della dottrina e per consentirgli così di seguire la discussione che seguirà dei problemi politici che comporta il raggiungimento del pieno impiego.

Bisogna innanzitutto affermare che sebbene la massima parte degli economisti concordi oggi sul fatto che il pieno impiego possa essere ottenuto con la spesa del Governo, questo non avveniva affatto fino a solo poco tempo fa.
Tra gli oppositori a questa dottrina c’erano (e ci sono ancora) stimati cosiddetti “esperti di economia” strettamente legati ai settori bancario ed industriale.
Questo suggerisce che ci sia uno sfondo politico nella opposizione alla dottrina del pieno impiego anche se gli argomenti avanzati sono di tipo economico. 
Il che però non vuole dire che le persone che avanzano queste obiezioni di carattere economico, per quanto povere possano essere, non credano in esse.
Ma una ignoranza ostinata è generalmente una manifestazione di sottostanti motivazioni politiche.

Ci sono, comunque, anche indicazioni più dirette del fatto che in gioco ci sia una questione politica di prima grandezza.
Nella grande depressione degli anni Trenta, le grandi imprese [big business] si opposero nello stesso modo a esperimenti diretti ad incrementare l’occupazione con la spesa del Governo in tutti i paesi, tranne che nella Germania nazista.
Questo si vide chiaramente negli Stati Uniti (opposizione al New Deal), in Francia (l’esperimento di Blum) e anche in Germania prima di Hitler.
Questo atteggiamento non è facile da spiegare.
Chiaramente una produzione e una occupazione più elevate generano benefici  non solo per i lavoratori ma anche per gli imprenditori, perché i loro profitti aumentano. E la politica di pieno impiego delineata sopra non usurpa i profitti perché non comporta alcuna tassazione aggiuntiva.
Gli imprenditori durante una crisi economica non vedono l’ora di un nuovo boom; perché non dovrebbero accettare con gioia quella ripresa economica “artificiale” che il Governo è in grado di offrire loro?
E’ una questione difficile e affascinante che intendo affrontare in questo articolo.
Le ragioni della opposizione dei “leader dell’industria” al pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo possono essere suddivise in tre categorie:
i)         L’avversione contro l’interferenza, in quanto tale, del Governo nel problema dell’occupazione;
ii)       L’avversione contro la destinazione della spesa del Governo (investimenti pubblici e sussidi ai consumi);
iii)   L’avversione contro i mutamenti sociali e politici provocati dal mantenimento del pieno impiego.
Esamineremo nel dettaglio ciascuna di queste tre categorie di obiezioni contro una politica espansiva condotta dal Governo.

II.2
Affronteremo innanzitutto la riluttanza dei “capitani d’industria” ad accettare l’intervento del Governo nel campo dell’occupazione.
Ogni ampliamento dell’attività dello Stato è vista dal “mondo degli affari” [business] con sospetto, ma la creazione di posti di lavoro con la spesa pubblica presenta un aspetto speciale che rende l’opposizione contro di essa particolarmente intensa.
In un sistema di laisser-faire il livello dell’occupazione dipende grandemente dal cosiddetto stato della fiducia [state of confidence].
Se questo si deteriora, gli investimenti privati diminuiscono, e questo provoca una caduta sia della produzione che dell’occupazione (sia direttamente che attraverso l’effetto secondario della caduta dei redditi sui consumi e sugli investimenti)
Questo dà ai capitalisti un potente controllo indiretto sulla politica del Governo: tutto quello che può scuotere lo stato della fiducia deve essere attentamente evitato perché causerebbe una crisi economica.
Ma una volta che il Governo apprende il trucco di incrementare l’occupazione con i suoi stessi acquisti, questo potente strumento di controllo perde la sua efficacia.
Quindi i deficit di bilancio necessari per portare a termine l’intervento del Governo devono essere considerati pericolosi.
La funzione sociale della dottrina di una “finanza solida” [sound finance] è quella di rendere il livello dell’occupazione dipendente dallo “stato della fiducia”.

II.3
L’avversione degli uomini d’affari [business leaders] contro una politica di spesa del Governo diventa ancora più acuta quando giungono a considerare gli obiettivi per i quali il denaro dovrebbe essere speso: investimenti pubblici e sostegno al consumo di massa.
I principi economici dell’intervento del Governo richiedono che gli investimenti pubblici siano confinati a oggetti che non competono con i mezzi di produzione delle imprese private (ad esempio ospedali, scuole, autostrade, etc.).
Altrimenti la profittabilità degli investimenti privati potrebbe essere diminuita e l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione controbilanciato dall’effetto negativo del declino degli investimenti privati.
Questa concezione si adatta molto bene alle richieste degli uomini d’affari.
Ma l’ambito degli investimenti pubblici di questo tipo è piuttosto ristretto, e c’è il pericolo che il Governo, nel perseguire questa politica, possa alla fine essere tentato di nazionalizzare i trasporti o i servizi idrici ed elettrici [public utilities] così da acquisire una nuova sfera di intervento nella quale poter investire. 2

Ci si potrebbe quindi aspettare che gli uomini d’affari e i loro esperti preferiscano un sostegno dei consumi di massa  (per mezzo di assegni familiari, sussidi per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, etc.) agli investimenti pubblici; dal momento che sussidiando i consumi il Governo non si imbarcherebbe in nessun tipo di “impresa”.
In pratica, tuttavia, questo non accade.
Al contrario, sussidi ai consumi di massa sono avversati molto più violentemente da questi “esperti” che non gli investimenti pubblici.
Perché qui è in gioco un principio “morale” della massima importanza.
I principi fondamentali dell’etica capitalista richiedono che “tu ti guadagnerai il tuo pane con il sudore” -  a meno che non capiti che tu sia ricco.

II.4
Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata -  come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse - il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari.
Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure].
La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero.
Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dei profitti, dagli uomini d’affari.
Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista.


III
[Fascismo e pieno impiego]
III.1
Una delle importanti funzioni del fascismo, come caratterizzato dal sistema nazista, è stata quella di rimuovere le obiezioni dei capitalisti al pieno impiego.

L’avversione contro la spesa del Governo in quanto tale è superata sotto il fascismo dal fatto che la macchina dello Stato è sotto il controllo diretto di una stretta alleanza tra le grandi imprese e i gerarchi fascisti.
La necessità del mito di una “finanza solida”, che serviva ad impedire al Governo di provocare una crisi di fiducia con la sua spesa, viene meno.
In una democrazia non si sa come sarà il prossimo Governo. Sotto il fascismo non c’è un prossimo Governo..

L’avversione contro la spesa del Governo, sia per investimenti pubblici che per sostenere i consumi, è superata dal concentrare la spesa del Governo sugli armamenti.
Infine, la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” in una condizione di pieno impiego sono mantenute dal “nuovo ordine”,  che spazia dalla soppressione dei sindacati ai campi di concentramento.
La pressione politica sostituisce la pressione economica della disoccupazione.

III.2
Il fatto che gli armamenti costituiscano la spina dorsale della politica di pieno impiego fascista ha una profonda influenza sulle sue caratteristiche economiche.
Una politica di riarmo su grande scala è inseparabile dall’espansione delle forze armate e dalla predisposizione dei piani per una guerra di conquista. Essa inoltre induce una politica di riarmo competitiva da parte degli altri paesi.
Questo fa sì che l’obiettivo principale della spesa si sposti gradualmente dal pieno impiego al raggiungimento della massima efficacia del riarmo. Di conseguenza l’occupazione diviene “troppo piena”; non solo la disoccupazione è abolita ma prevale un’acuta scarsità di forza lavoro.
Colli di bottiglia si manifestano dappertutto e devono essere affrontati con l’istituzione di tutto un insieme di strumenti di controllo.
Un’economia di questo tipo ha molte delle caratteristiche di una “economia pianificata”, ed è talvolta paragonata, dimostrando una certa ignoranza, al socialismo.
Comunque è necessario che questo tipo di “pianificazione” appaia ogni volta che un’economia si pone un certo elevato obiettivo produttivo in un determinato settore, quando diventa una “economia con un obiettivo” [target economy] della quale la “economia per l’armamento” [armament economy] è un caso particolare.
Una “economia per l’armamento” comporta in particolare la riduzione dei consumi, se confrontati con quelli che si potrebbero avere in una condizione di pieno impiego.

Il sistema fascista inizia con il superamento della disoccupazione, si sviluppa in una “economia per l’armamento” della scarsità, e termina inevitabilmente nella guerra.


IV
[Democrazia capitalista e pieno impiego]
IV.1
Quale sarà il risultato pratico dell’opposizione al “pieno impiego ottenuto con la spesa del Governo” in una democrazia capitalista?
Proveremo a rispondere a questa domanda sulla base delle ragioni di questa opposizione esposte nella sezione II.
Abbiamo argomentato che ci possiamo aspettare l’opposizione dei “leader dell’industria” su tre piani:
i)         L’opposizione di principio contro la spesa del Governo basata sul deficit di bilancio;
ii)       L’opposizione contro il fatto che questa spesa sia diretta o verso gli investimenti pubblici - che potrebbero prefigurare l’intrusione dello Stato in nuovi campi dell’attività economica - o verso il sostegno ai consumi di massa;
iii)    L’opposizione contro il mantenimento della piena occupazione e non contro una semplice azione diretta a prevenire il verificarsi di depressioni economiche profonde e prolungate.

Ora, deve essere riconosciuto il fatto che il tempo in cui gli “uomini d’affari” potevano opporsi a qualsiasi tipo di intervento del Governo diretto ad alleviare una crisi economica è ormai passato.
Tre fattori hanno contribuito a questo:
a)     Proprio il pieno impiego durante questa guerra;
b)     Lo sviluppo della dottrina economica del pieno impiego;
c)    In parte come risultato dei precedenti due fattori, il fatto che lo slogan “mai più disoccupazione” ["Unemployment never again"] è oggi profondamente radicato nella coscienza delle masse.
Questa condizione si è riflessa nelle dichiarazioni recenti dei “capitani d’industria” e dei loro esperti.
La necessità che “qualcosa deve essere fatto nella crisi” è condivisa; ma la battaglia continua, in primo luogo, su “cosa deve essere fatto nella crisi” (ad esempio su quale deve essere la direzione dell’intervento del Governo), e in secondo luogo, sul fatto che “deve essere fatto solo nella crisi” (ad esempio semplicemente per alleviare la crisi piuttosto che non per assicurare un permanente pieno impiego).

IV.2
Nelle discussioni correnti di questi problemi emerge continuamente l’idea di contrastare le fasi di recessione economica stimolando gli investimenti privati.
Questo può essere fatto diminuendo il tasso di interesse, riducendo le imposte sui redditi, o sussidiando direttamente gli investimenti privati in un modo o nell’altro.
Che questa idea debba essere attraente per il “mondo degli affari” non è sorprendente. L’imprenditore rimane il mezzo attraverso il quale l’intervento è condotto. Se egli non prova fiducia per la situazione politica non potrà essere comprato affinché investa. E l’intervento non comporta né che il Governo “giochi” con gli investimenti (pubblici) né che “sprechi denaro” sussidiando i consumi.

Si può mostrare, tuttavia, che lo stimolo degli investimenti privati non fornisce un metodo adeguato per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ci sono due alternative da considerare qui:
(a)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi (o entrambi) vengono ridotti nettamente nella crisi e incrementati nel boom.
In questo caso sia il periodo che l’ampiezza del ciclo economico saranno ridotti, ma l’occupazione può essere lontana dal pieno impiego non solo nelle fasi di recessione ma anche in quelle di espansione economica, ad esempio il tasso di disoccupazione medio può essere considerevole, anche se le sue fluttuazioni saranno meno marcate;
(b)     Il tasso di interesse o l’imposta sui redditi vengono ridotti in una crisi ma non vengono incrementati nella successiva fase di espansione economica.
In questo caso la fase espansiva dell’economia durerà più a lungo ma deve terminare in una nuova crisi: una diminuzione del tasso di interesse o dell’imposta sui redditi non eliminano di certo le forze che causano fluttuazioni cicliche in una economia capitalista.
Nella nuova fase recessiva sarà necessario ridurre di nuovo o il tasso di interesse o le imposte sui redditi, e cosi via.
Così, in un futuro non troppo remoto, il tasso di interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui redditi dovrebbe essere sostituita con sussidi ai redditi.
Lo stesso risultato si otterrebbe se si tentasse di mantenere il pieno impiego stimolando gli investimenti privati: il tasso di interesse e le imposte sui redditi dovrebbero essere ridotte continuamente.

In aggiunta rispetto a questa debolezza fondamentale del combattere la disoccupazione stimolando gli investimenti privati, c’è una difficoltà pratica.
La reazione degli imprenditori alle misure descritte sopra è incerta.
Se la recessione è accentuata gli imprenditori possono assumere una visione estremamente pessimistica del futuro, e la riduzione del tasso di interesse o delle imposte sui redditi può avere perciò per un lungo periodo di tempo un effetto piccolo o nullo sugli investimenti, e così sul livello della produzione e dell’occupazione.

IV.3
Anche coloro che sono a favore di uno stimolo degli investimenti privati per contrastare una fase di recessione economica spesso non fanno affidamento esclusivamente su di esso ma immaginano che debba essere associato ad investimenti pubblici.
Al momento sembra che i “leader dell’economia” e i loro esperti (o almeno parte di essi) tendenzialmente accetterebbero come estremo rimedio investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento, come strumento per alleviare le fasi di recessione economica.
Essi appaiono comunque ancora fortemente contrari alla creazione di occupazione con sussidi ai consumi, e al mantenimento della piena occupazione.

Questo stato delle cose è forse sintomatico del regime economico futuro delle democrazie capitaliste.
Nelle fasi di recessione economica, o sotto la pressione delle masse o anche senza di essa, investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento saranno decisi per prevenire il verificarsi di una disoccupazione di massa.
Ma è probabile che eventuali tentativi di applicare questo metodo, compiuti per mantenere l’alto livello di occupazione raggiunto nella fase successiva di espansione economica, incontrerebbero una forte opposizione da parte dei “leader dell’economia”.
Come ho già detto, un durevole pieno impiego non è affatto di loro gradimento.
I lavoratori “sfuggirebbero di mano” e i “capitani d’industria” sarebbero ansiosi di “dargli una lezione”.
Inoltre, l’incremento dei prezzi in una fase di espansione economica avviene a svantaggio dei piccoli e grandi rentier e li rende “stanchi del boom economico”.
In questa situazione è probabile che si formi un potente blocco sociale tra gli interessi delle grandi imprese e quelli dei rentier, e che essi troverebbero più di un economista disposto a dichiarare che la situazione sia manifestamente non sostenibile.
La pressione di tutte queste forze, e in particolare delle grandi imprese [big business] - di norma influenti nei ministeri -  quasi sicuramente indurrebbe il Governo a ritornare alla politica ortodossa di riduzione del deficit di bilancio.
Seguirebbe quindi una recessione economica nella quale la politica di spesa del Governo tornerebbe in auge.
Questo tipo di ciclo economico-politico [political business cycle] non è solo una congettura; qualcosa di molto simile è accaduto negli Stati Uniti nel biennio 1937-1938 .
La fine della fase economica espansiva nella seconda metà del 1937 fu davvero dovuta alla drastica riduzione del deficit di bilancio. D’altra parte, nella fase acuta di recessione economica che seguì, il Governo prontamente ritornò a una politica di spesa.

Il regime del “ciclo economico-politico” sarebbe una restaurazione artificiale della condizione esistente nel capitalismo dell’Ottocento.
Il pieno impiego sarebbe raggiunto solo all’acme della fase economica espansiva, ma le fasi di contrazione economica sarebbero relativamente moderate e di breve durata.


V
[Compiti dei progressisti]
V.1
Un progressista dovrebbe essere soddisfatto di un regime del “ciclo economico-politico” come quello descritto nella sezione precedente?
Penso che dovrebbe opporsi per due motivi:
i)          Perché non assicura un durevole pieno impiego;
ii)     Perché l’intervento del Governo è limitato agli investimenti pubblici e non si estende al sostegno ai consumi.
Quello che le masse oggi domandano non è la mitigazione delle fasi di recessione economica ma la loro totale abolizione.
Né il più pieno impiego delle risorse risultante dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici non desiderati solo per fornire lavoro.
Il programma di spesa del Governo dovrebbe essere diretto a investimenti pubblici solo nella misura in cui questi investimenti sono realmente necessari.
Il resto della spesa del Governo necessaria per mantenere il pieno impiego dovrebbe essere diretta a sostenere i consumi (attraverso gli assegni familiari, le pensioni di vecchiaia, la riduzione delle imposte indirette, i sussidi per ridurre i prezzi dei beni di prima necessità).
Gli oppositori a questo tipo di spesa del Governo dicono che il Governo non avrà allora nulla da mostrargli in cambio dei loro soldi. La risposta a questa obiezione è che la contropartita di questa spesa sarà un più elevato livello di vita delle masse.
Non è questo il fine di tutta l’attività economica?

V.2
Il “capitalismo del pieno impiego” [full employment capitalism] dovrà, naturalmente, sviluppare nuove istituzioni sociali e politiche che rifletteranno l’accresciuto potere della classe operaia.
Se il capitalismo riuscirà ad adattarsi al pieno impiego allora in esso sarà stata incorporata una riforma radicale.
Altrimenti, si sarà dimostrato un sistema obsoleto che deve essere abbandonato.

Ma forse la battaglia per il pieno impiego condurrà al fascismo?
Forse il capitalismo si adeguerà al pieno impiego in questo modo?
Questo sembra estremamente improbabile.
Il fascismo è sorto in Germania in una condizione di tremenda disoccupazione e si è mantenuto al potere assicurando quel pieno impiego che il capitalismo non era riuscito a garantire.
La battaglia delle forze progressiste per il pieno impiego è nello stesso tempo un modo per prevenire la rinascita del fascismo.


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Note:

Questo articolo corrisponde approssimativamente a una conferenza tenuta presso la Marshall Society a Cambridge nella primavera del 1942.

1 Un altro problema, di natura un po’ più tecnica, è quello del debito pubblico. Se il pieno impiego è mantenuto dalla spesa del Governo finanziata con un maggiore indebitamento, il debito pubblico crescerà continuamente. Questo comunque non comporta alcun problema per la produzione e l’occupazione, se gli interessi sul debito sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.
Il reddito corrente, dopo il pagamento dell’imposta patrimoniale, sarà minore per alcuni capitalisti e maggiore per altri rispetto a quello che sarebbe stato se il debito pubblico non fosse stato incrementato, ma il loro reddito complessivo rimarrà uguale e il loro consumo aggregato probabilmente non varierà significativamente.
Inoltre, l’incentivo ad investire in capitale fisso non è modificato da una imposta patrimoniale perché essa è applicata ad ogni tipo di ricchezza. Sia che un capitale sia detenuto in contanti o in titoli di Stato o investito nella costruzione di una fabbrica, su di esso si applica la stessa imposta patrimoniale e così il vantaggio comparato di un’alternativa rispetto all’altra rimane immutato.
E gli investimenti finanziati con debiti non sono chiaramente colpiti da un’imposta patrimoniale perché non costituiscono un incremento della ricchezza dell’imprenditore che ha investito.
Così né i consumi né gli investimenti dei capitalisti sono influenzati da un incremento del debito pubblico, se gli interessi su di esso sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale.

2 Si deve notare qui che gli investimenti in un settore nazionalizzato possono contribuire alla soluzione del problema della disoccupazione solo se sono affrontati con principi differenti da quelli adottati dalle imprese private.
Il Governo deve accontentarsi di un tasso di rendimento netto inferiore a quello delle imprese private, o deve deliberatamente pianificare i suoi investimenti in modo tale da realizzarli al momento giusto per mitigare gli effetti delle crisi economiche.


[FINE]


* Ho aggiunto delle intestazioni alle cinque sezioni dell'articolo. Il testo in corsivo grassetto evidenzia l'enfasi posta dall'Autore su alcune parole.